Occorreva che Thomas Sankara morisse perché, nella memoria africana, la sua vita folgorante, rimanesse nelle gesta? Dov’è il Burkina venti anni dopo la sua scomparsa? Queste questioni sono al centro di due dibattiti tenuti parallelamente, come per prolungare nel tempo la rottura che ha condotto al 15 ottobre 1987: uno tenuto da quelli che si vantano dell’eredità di Thomas Sankara e si disputano la sua icona, l’altro da parte dei loro avversari che dirigono il paese da questa data storica. Esse ravvivano delle passioni e delle emozioni nei principali protagonisti tanto è vero che il cordoglio non è stato completato, nonostante gli sforzi di riconciliazione nazionale intrapresi dieci anni fa.
Tuttavia, occorrerà che queste passioni ed emozioni si allevino per lasciare posto alla riflessione serena ed al dialogo fertile tra uomini e donne animati dalla stessa ambizione per il loro paese ed i cui disaccordi politici possono esprimersi nei canali istituzionali di uno Stato di diritto. Poiché è precisamente l’assenza di questa riflessione serena e di questo dialogo fertile – non sul progetto di società ma sui mezzi, i metodi e le tappe – che hanno condotto agli strappi interni al movimento rivoluzionario del 4 agosto 1983, che ha gettato nella costernazione i suoi simpatizzanti e sostenitori in Africa e nel mondo. Poteva essere differentemente? Alcuni riferimenti…
Un esito inevitabile?
Surrogato di Stato sotto Maurizio Yaméogo, il primo presidente insediato dalla Francia e deposto dal generale Lamizana, l’Alto-Volta di allora non ha conosciuto, da quel momento, se non degli stati di emergenza. La vita politica ufficiale era predominata da un grosso Raduno democratico africano (RDA), partito clientelista di notabili dormienti nel grembo néocoloniale. La vera vita era invece animata da un’elite intellettuale raccolta nella più vecchia formazione marxista-leninista, il Partito Africano dell’Indipendenza (PAI), quindi in una mezza dozzina d’altri partiti concorrenti che si ispiravano al maoismo. Caratteristica principale di tutte le sue formazioni: i loro quadri, formatisi in Francia negli anni 1960 e 1970 nell’ambito della Federazione degli studenti dell’Africa nera francofona (Feanf) hanno grande dimestichezza con le polemiche ideologiche che agitavano le sinistre europee – Lénine, Stalin, Trotsky, Mao, Guevara, ma anche Fanon, Cabral… – il loro modo di funzionamento, dettato dalle costrizioni della clandestinità, è fondato sul centralismo democratico che consegna al gruppo dirigente un potere regale; la loro base sociale è sociologicamente circoscritta negli ambienti dell’insegnamento (liceali, studenti e professori) e del settore pubblico che hanno conservato tuttavia un forte legame economico e sociale con le loro famiglie rurali.
Questi tre elementi eserciteranno un’influenza profonda sulle scelte e gli orientamenti del regime, e soprattutto il suo modo di funzionamento ed i metodi di gestione. Tanto più che gli ufficiali, rivoluzionari, condividevano le opzioni ideologiche di questi partiti o ne subivano un’influenza fatta di complicità nate nei collegi e negli istituti universitari. A parte queste differenze, essi erano legati al loro statuto di soldati (e di cospiratori) con tutto quanto questo fatto implica in termini di gerarchia, disciplina ed obbedienza agli ordini.
Di conseguenza, passati i primi tre anni di un consenso relativo tra tutte le componenti del Consiglio Nazionale della Rivoluzione (CNR) – che ha permesso di porre in essere atti fondamentali – sono apparse divergenze diventate, sulla scia della pratica e dei dibattiti, burrascose, contraddizioni, quindi antagonismi.
Le cause? Sono multiple e intricate. Attengono, oltre che alla lotta inevitabile per la ripartizione del potere, ad una scelta volontaristica che sopravvaluta il fattore politico, tanto interno che esterno, e sottovaluta le costrizioni economiche di un paese povero e isolato. Attengono soprattutto alla questione decisiva della scelta del modello d’organizzazione della società e dello Stato: una democrazia popolare inquadrata da un partito monolitico di tipo leninista, o una democrazia sociale animata da un fronte democratico? È questa seconda opzione che è prevalsa. Certamente, occorre sapere se un’uscita diversa dal confronto armato fosse possibile; ma occorre anche situare il contesto nazionale – uno stato di emergenza in vigore per dieci anni -, ed internazionale: crescita della forza del liberalismo economico e le premesse del crollo del blocco socialista. Oltre al suo interesse storico, quest’approccio permette di capire meglio se fosse stata possibile una strada alternativa a quella scelta dagli iniziatori del fronte popolare (1987-1992) e che ha condotto il paese ad uno Stato di diritto nel quale – nonostante il quadro restrittivo imposto dal FMI e dalla Banca Mondiale -, gli stessi obiettivi fissati dalla rivoluzione del 4 agosto sono stati perseguiti con successi oggi misurabili: sviluppo dell’agricoltura, del sistema sanitario, dell’istruzione e della cultura, emancipazione delle donne, creazione di posti di lavoro, miglioramento delle infrastrutture pubbliche e degli alloggi, allargamento ed ammodernamento delle istituzioni dello Stato, incoraggiamento delle cooperative di produzione e delle associazioni cittadine…
Democratizzazione
Questo dinamismo. favorito dalla stabilità istituzionale e da una politica di raccolta e di coesione nazionale, è tuttavia – liberalismo aiuta – appannato dall’emergenza di uno strato di nuovi ricchi di successo tanto rapido quanto ostentato, e dalla pratica della corruzione. Sebbene in piccola scala, questi due fenomeni gettano un’ombra sul concetto di solidarietà e sulla nozione d’integrità di cui il Burkina Fasso è legittimamente orgoglioso. Se la democratizzazione rimane ancora da approfondire, questa non resta meno reale, tanto da permettere un confronto delle idee e dei programmi. Lontano dall’agiografia dell’auto-soddisfazione, delle esclusive o delle esclusioni.
Bouzid Kouza
Fonte : http://www.ossin.org/…