La lunga lotta dei popoli africani per emanciparsi dal colonialismo e dal neocolonialismo non sempre conquista l’attenzione di noi occidentali. Educati secondo i rigidi dettami dell’eurocentrismo, dentro la logica ferrea del «fardello dell’uomo bianco», secondo l’orrenda locuzione coniata da Rudiard Kipling per riassumere l’essenza della «missione civilizzatrice» dell’uomo europeo, spesso ci permettiamo di guardare all’Africa con distratta condiscendenza. E questo nell’incrollabile convinzione che gli africani versino nelle drammatiche condizioni di arretratezza e miseria che piagano il continente di là dal Mediterraneo, in definitiva soprattutto per un demerito loro.

Molto tempo è trascorso da quando la solidarietà internazionalista strutturata dai comunisti portava sin nel seno del nostro movimento operaio di massa la conoscenza della forza prorompente con cui le giovani nazioni africane, a partire dall’immediato dopoguerra, hanno dato vita ai loro originali percorsi di emancipazione, pienamente inseriti nella nuova storia degli uomini apertasi in Russia nel 1917. Del Ghana di Kwame Nkrumah, della Guinea di Sékou Turé, del socialismo della Repubblica Popolare del Congo, della Tanzania di Julius Nyerere, della lotta di liberazione in Angola e nel Mozambico e di tanti altri brevi o lunghi esperimenti di costruzione di società libere nel continente africano non resta, nel senso comune di noi europei, che un pallido ricordo.

Una circostanza, questa, che non deve stupire: sull’ignoranza nostra delle problematiche dell’indipendenza africana si erge l’edificio ideologico del neocolonialismo che, negli ultimi anni, è tornato più volte a mostrare il suo volto più brutale e assassino per opera, in particolare, degli eserciti degli Stati Uniti e della Francia, ma non senza l’attiva partecipazione del nostro paese. Dalla Libia alla Costa d’Avorio, per giungere infine al Mali, gli esempi lampanti di aggressione imperialista si sono succeduti negli ultimi due anni, fitti e incontrovertibili, davanti agli occhi di un’opinione pubblica italiana ed europea resa cieca e sorda dal trionfo egemonico della borghesia, dalla fermezza con cui si è imposto il pensiero unico delle classi dominanti come paradigma di lettura delle cose del mondo.

Eppure il monito circa la natura profonda e le forme di manifestazione del neocolonialismo in Africa viene da lontano, sin dai primissimi anni delle fittizie indipendenze africane. Scrive Mehdi Ben Barka, indimenticato eroe rivoluzionario marocchino assassinato dagli sgherri del governo asservito al neocolonialismo del suo paese nel 1965: «Per l’insieme dei paesi africani noi dobbiamo far fronte ai pericoli di un neocolonialismo sin dalla proclamazione dell’indipendenza che lascia intatte, con le strutture coloniali, tutte le possibilità di uno sfruttamento imperialista. Ogni indipendenza che si contenti di ricondurre sotto nuove etichette le caratteristiche della dominazione coloniale non potrebbe essere che fuorviante e ingannevole». E ancora: «È appoggiandosi sulla loro preponderanza economica che le potenze ex-colonizzatrici mantengono da noi importanti forze militari. Gli investimenti capitalisti, la presenza di popolazione coloniale costituiscono nello stesso tempo una ragione e un alibi per la loro presenza militare che s’iscrive anche nella strategia mondiale della guerra fredda».

Recuperare la coscienza della natura della presenza e dell’intervento di paesi come il nostro nel continente africano e rafforzare i legami di solidarietà tra i nostri movimenti di lotta e i movimenti di liberazione che lì si sviluppano non è dunque solo un dovere internazionalista, ma anche un’assoluta priorità di lavoro per costruire le condizioni di una nuova fase di conflitto strutturato e consapevole nel seno stesso della nostra società.

Ecco dunque il valore che acquisisce per noi la commemorazione del trentennale della rivoluzione socialista e anticolonialista fiorita il 4 agosto del 1983 nell’allora Alto Volta ad opera di uno dei più straordinari dirigenti rivoluzionari che l’Africa e il mondo abbiano conosciuto: Thomas Sankara. Una rivoluzione scaturita dalle più profonde contraddizioni originate dallo sfruttamento imperialista in un territorio spossessato dai colonizzatori, fin dal nome, di ogni identità umana, culturale, per farne mero luogo geografico di rapina, e restituito per un breve momento dalla volontà rivoluzionaria delle sue forze armate, dall’intelligenza trasformatrice di Sankara alla concreta possibilità del progresso e della felicità per tutti. L’emblematico cambiamento del nome dello Stato da Alto Volta a Burkina Faso, «terra degli uomini retti», acquisiva dunque un carattere programmatico molteplice e complesso, infine tradito dalla sedizione con cui l’attuale presidente-dittatore Blaise Compaoré, su mandato della Francia di François Mitterrand e degli Stati Uniti, si appropriò del potere assassinando Sankara il 15 ottobre del 1987.

Dicevamo del valore di quei fatti per noi occidentali, europei, italiani rivoluzionari, dunque pienamente dentro la società dello sfruttamento elevato alla sua massima efficienza, dentro il benessere che è il prodotto del trionfo (momentaneo) degli interessi delle nostre classi dominanti nella competizione imperialistica mondiale, ma con la coscienza critica necessaria per sentirne il peso come problema individuale e collettivo, come spinta alla trasformazione sociale. Come assunzione, infine, di una responsabilità diretta nel determinare il corso delle cose del mondo che ci porta a vivere l’ambizione di elevarci, attraverso l’analisi e la lotta, a forza dirigente della storia, a non farci dominare dal presente immutabile già scritto di qui all’infinito nel progetto dei padroni nostri e del mondo intero. Schiavi rimpinzati con le briciole del banchetto delle risorse mondiali cui le nostre istituzioni finanziarie, le nostre industrie, i nostri speculatori partecipano con il sostegno attivo, funzionale, delle istituzioni e degli apparati di violenza del nostro come di altri paesi del «primo mondo», dispiegati a garantire con la forza che le cose non cambino, sotto la copertura ideologica del «dirittumanismo» ipocrita che si traduce in «missioni umanitarie» portatrici di morte.

Schiavi la cui porzione degli avanzi del banchetto va riducendosi. Perché al fondo della crisi vi è indiscutibilmente l’avanzare delle nuove potenze sulla scena mondiale, dalla Cina alla Russia, dall’India al Brasile e al Sudafrica. E queste potenze intervengono in Africa in maniera crescente, offrono a popolazioni soggiogate da secoli patti migliori per lo sfruttamento delle immense risorse naturali, le strappano all’egemonia fino a ieri indiscutibile dell’Occidente. E ciò le espone a ritorsioni spaventose.

Tutto questo non è per noi una novità: quando il capitalismo entra in crisi, la sua reazione fa scorrere oceani di sangue. La guerra distrugge rendendo possibile ricostruire, ridefinisce equilibri, ridimensiona i concorrenti. Fidel Castro avverte da tempo circa i pericoli che corre la pace mondiale e la possibilità che il deflagrare dei conflitti latenti nel mondo d’oggi porti all’olocausto nucleare. Ma non è tutto lì il problema: una guerra mondiale è già in atto, dichiarata ovunque dal vecchio mondo contro il nuovo. E tornano in mente le parole di Maximilien Robespierre: «Chi opprime una sola nazione, si dichiara nemico di tutte». La verità di quest’affermazione la sperimentiamo sulla nostra pelle: le stesse forze che portano la violenza e la distruzione in Africa e altrove, quei potentati che dominano la società italiana e non solo, dichiarano al contempo guerra alle classi subalterne dei loro paesi d’origine, dilaniano le nostre società, vi diffondono la fame, la disperazione, l’alienazione. Uccidono per debiti qui e per fame lì. Si dichiarano nostri nemici nel momento stesso in cui lo sono per i popoli oppressi dal giogo neocoloniale.

E proprio su questo punto, sulla denuncia dell’indebitamento pubblico come strumento di perpetuazione del dominio delle oligarchie sui popoli, Sankara offrì un contributo dal valore generale inestimabile e presentissimo nell’attualità anche italiana determinata dall’autoritarismo delle politiche della Trojka UE-BCE-FMI, pronunciando il 29 luglio 1987 uno storico discorso ad Addis Abeba destinato ad accelerare in modo forse decisivo il momento del suo assassinio: «Il debito nella sua forma attuale è una riconquista sapientemente organizzata dell’Africa, perché la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a dei paletti, a delle norme che ci sono totalmente estranei. Facendo in modo che ciascuno di noi diventi lo schiavo finanziario, ossia lo schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’astuzia, la furbizia di collocare da noi dei fondi con l’obbligo di rimborso. […] Vorrei che la nostra conferenza adottasse la necessità di dire chiaramente che noi non possiamo pagare il debito. Non in uno spirito bellicoso, bellicista. Ciò per evitare che noi ci avviamo a farci assassinare individualmente. Se il Burkina Faso da solo rifiuta di pagare il debito, io non sarò presente alla prossima conferenza!»

È da queste considerazioni, da questo esempio politico e personale che discende il valore, anche per noi presente, cosa nostra in tutto e per tutto, del pensiero e dell’esempio di Sankara. Di qui la forza della sua esortazione a decolonizzare la nostra mentalità, a concepire la fratellanza umana come indirizzata a condurre e vincere una guerra comune contro i nostri sfruttatori, i nostri padroni, i nostri carnefici.
Thomas Sankara, il suo Burkina Faso libero e capace di lottare efficacemente contro l’analfabetismo, la malattia e la fame, per la vita e la felicità di tutti, vivono dunque in noi, nelle nostre lotte quanto in quelle del suo popolo e degli altri popoli d’Africa. La sua voce tranquilla, il suo sguardo limpido c’invitano a non restare chiusi in casa ad aspettare che il nemico di classe ci metta in ginocchio, ma a uscire a lottare, a vivere.

Un monito universale che vogliamo raccogliere ricordandone l’esempio nel trentennale della sua rivoluzione e che, anche attraverso di noi, vogliamo sempre più presente e vitale nella costruzione del socialismo del XXI secolo.

Alessio Arena

in data:04/08/2013

Fonte : http://liberazione.it/rubrica-file/Commemorando-Thomas-Sankara-e-la-sua-rivoluzione-africana—4-agosto-1983–4-agosto-2013.htm

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