di Giorgio Bianchi
Non ricordo quando sentii per la prima volta parlare di Thomas Sankara. Non certamente quando era ancora vivo, dal momento che è morto nel 1987 quando io ero ancora ben lontano dall’occuparmi di cooperazione internazionale.
Certamente ne sentii parlare sommessamente ma con amore, durante qualche missione in Burkina Faso. Sommessamente perché la sua figura è tuttora scomoda per chi regge ora le sorti di quel paese, con amore perché fu una meteora che per breve tempo illuminò di luce nuova la vita del popolo burkinabé.
Nacque nel 1949, in quello che allora si chiamava Alto Volta, situato in quella fascia dell’Africa Sub sahariana chiamata Sahel, tra il deserto e i paesi che si affacciano sul golfo di Guinea.
Dopo aver frequentato le scuole superiori, avrebbe voluto studiare da medico grazie ad una borsa di studio, però gli andò male, allora scelse la carriera militare.
Aveva 33 anni ed il grado di capitano, quando il governo al potere, composto da funzionari corrotti, fu abbattuto da un ennesimo colpo di stato promosso dai militari.
Il nuovo regime, prima ben accolto dalla popolazione, divenne ben presto autoritario e represse duramente ogni dissenso. Sankara venne invitato ad entrare nel governo, ma rifiutò denunciando apertamente la repressione e dimettendosi dall’esercito. Per questo venne arrestato assieme al suo inseparabile compagno d’armi Blaise Compaoré che condivideva le sue idee e che tanta parte avrebbe avuto nelle sue future vicende.
Ma la fama di Sankara come persona liberale, onesta e dedita al bene della collettività, si era già diffusa, tanto che studenti, giovani, gruppi di sinistra e una grande fascia della popolazione ne reclamarono la liberazione che avvenne il 30 maggio 1983.
Tre mesi dopo, il Consiglio Nazionale della Rivoluzione nominò Sankara presidente dell’Alto Volta.
Il programma che Sankara si accinse a realizzare, era veramente rivoluzionario, anche se a volte velato da un eccessivo idealismo. Era rivoluzionario soprattutto se consideriamo la situazione della maggior parte degli stati africani ed era volto innanzitutto a migliorare le condizioni di vita della popolazione burkinabé, coinvolgendola in ogni iniziativa.
Volle cambiare il nome di Alto Volta, attribuitogli dai colonizzatori francesi, in quello di Burkina Faso, che nella lingua locale significa “Terra degli uomini integri”.
Durante i pochi anni in cui riuscì a governare, vennero realizzate centinaia di scuole, di dispensari, centri di salute, vennero vaccinati oltre due milioni di bambini contro la febbre gialla, il morbillo ed altre malattie endemiche, venne avviata una politica di liberazione delle donne, contro la violenza, contro le mutilazioni genitali ancora presenti in quella cultura, coinvolgendole anche nella vita politica.
Ma quello che più gli stava a cuore, era lo sviluppo economico del suo paese, uno sviluppo sostenibile, che lo affrancasse dalla dipendenza straniera, dalle vecchie potenze coloniali, dalla grande finanza internazionale e dai suoi perversi meccanismi.
L’economia del Burkina Faso dipende essenzialmente dall’agricoltura.
Un’agricoltura stentata a causa della scarsità d’acqua tipica della regione, aggravata dai recenti cambiamenti climatici che vedono il deserto avanzare ogni anno di più.
Per questo, grazie al suo programma, vennero creati centinaia di bacini di raccolta acqua, un migliaio di pozzi, vennero piantati milioni di alberi per far rivivere il Sahel, lanciando campagne di sensibilizzazione ambientale, venne varata una riforma agraria di ridistribuzione delle terre ai contadini.
Era anche famoso per il suo rigore, la sua modestia e semplicità, doti che richiedeva anche ai membri e ai funzionari del suo governo spesso recalcitranti, giungendo a ridurre anche i compensi degli alti funzionari.
Non concepiva un presidente ricco in un paese povero. Abolì le auto di rappresentanza utilizzando per i suoi spostamenti una Renault 5, a volte anche la bicicletta. Si recava alle conferenze dei Capi di Stato viaggiando in classe turistica o chiedendo passaggi ad altri capi di stato che viaggiavano su aerei personali e alloggiando in alberghi di livello modesto.
La sua azione, col procedere delle riforme, assunse un respiro sempre più ampio. Era un tenace sostenitore dell’autonomia del Burkina Faso. Il suo motto era “Produciamo quello che consumiamo, consumiamo quel che produciamo”. Motto che tradusse in azioni concrete come incentivare la produzione di tessuti e di abiti confezionati con il cotone locale, abiti che lui stesso indossava.
Con la lotta alla corruzione, l’austerità e l’erosione dei privilegi, riuscì a portare il bilancio in pareggio senza doversi piegare alle condizioni capestro del Fondo Monetario Internazionale, perché era consapevole che “Il Fondo sembra andare ben oltre ad un controllo di bilancio, per perseguire un controllo politico”.
Anche di fronte agli aiuti internazionali era diffidente. Affermava che “Occorre rifiutare l’aiuto che serve a far comperare i prodotti dei donatori e ad aprire conti nelle banche occidentali”.
Ma la sua attenzione non era rivolta solamente al Burkina Faso, era il futuro dell’Africa intera che lo preoccupava.
Ad Addis Abeba, il 29 luglio 1987, alla venticinquesima Conferenza del membri dell’Organizzazione per l’Unità Africana, tenne un discorso sul debito estero, quel debito che opprime anche la maggior parte degli stati africani. Le sue parole furono una denuncia di questa atroce piaga ed un incitamento a ribellarsi, anche se poi finirono per cadere nel vuoto.
“Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo.
Quelli che ci hanno prestato il denaro sono gli stessi che ci hanno colonizzati, sono gli stessi che hanno per tanto tempo gestito i nostri stati e le nostre economie… Noi siamo estranei a questo debito, dunque non possiamo pagarlo… Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno. Possiamo essere certi al contrario che, se paghiamo, saremo noi a morire… Signor presidente, cerchiamo di mettere a punto questo Fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo che sia a partire da Addis Abeba che si decida di frenare la corsa agli armamenti, ogni volta che un paese africano compra armi, è contro gli africani”.
Se ho scritto questo articolo su Thomas Sankara per il numero di ottobre di Tempi di Fraternità, è per un motivo ben preciso.
Il 15 ottobre 1987, l’amico e compagno di lotta Blaise Compaoré, con una congiura di palazzo lo fece assassinare ed ora governa un Burkina Faso dove il dissenso è imbavagliato.
Un Burkina Faso più compiacente verso le potenze occidentali, un Burkina Faso ripiombato nella povertà più estrema e, quel che conta, più indebitato e perciò più dipendente.
Il suo governo è una dittatura, seppur blanda ma pur sempre dittatura, con le sue repressioni e le sue vittime.
Del grande sogno di Thomas Sankara non è rimasto molto.
Parlando con la gente si percepisce un certo comprensibile timore a fare il suo nome. Ma se si riesce ad instaurare un rapporto più amichevole, di fiducia reciproca, allora emerge ben chiaro come il popolo abbia conservato per lui un amore profondo, perché se molte speranze nate grazie alla sua azione sono andate perdute, una cosa è rimasta come un’eredità ormai radicata nelle coscienze: è rimasto il senso della dignità di un popolo, quella di appartenere alla “Terra degli uomini integri”.
Che il seme gettato da Thomas Sankara in quest’arida terra, possa un giorno germogliare e dare nuovi frutti per nutrire la speranza di un futuro migliore.
Articolo scritto in occasione della XXI commemorazione dell’assassinio di pubblicato su tempi di fraternità – donne e uomini in ricerca e confronto comunitario numero 8 – ottobre 2008 http://www.tempidifraternita.it/