Fra il 1983 e il 1987 l’esperienza della rivoluzione in Burkina Faso guidata da Thomas Sankara anticipava gli ideali e le pratiche delle attuali alleanze in America Latina e del concreto progetto dell’Alba

di Marinella Correggia (*) e Patrizia Donadello (**)

“Quello che esce dall’immaginazione umana è realizzabile. Dalla mia usciva il paradiso”. Thomas Sankara pronunciò solo la prima di queste due frasi. La seconda è contenuta in un’opera teatrale ispirata alla vicenda politica e umana di quel “presidente ribelle” del Burkina Faso, così originale e visionario che sarà poi definito “un felice incidente della storia” da (Sennen Andriamirado, Sankara le rebelle; Jeune Afrique, Parigi 1987; Sennen Andriamirado, Il s’appelait Sankara, Jeune Afrique, Parigi 1988). “Sankara” è ancora un mot de passe, una parola d’ordine per riconoscersi, in Africa e non solo (www.thomassankara.net). La sua vicenda fu breve e luminosa come un lampo: fu ucciso nel 1987 in una congiura fra interessi interni e forze neocolonialiste esterne contro un personaggio scomodo e popolare. Era ancora un’altra epoca, quella in cui anche in America Latina i golpe erano la norma e purtroppo avevano successo.

Il paradiso, Sankara l’aveva sognato a partire dal suo paese, quel saheliano, sconosciuto Alto Volta che dopo la rivoluzione dell’agosto 1983 era diventato Burkina Faso ovvero “il paese degli integri”. Nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 4 ottobre 1984, Sankara, parlando tuttavia “a nome di tutti coloro che soffrono nel mondo”, definì il Burkina “un paese che a buon diritto può definirsi concentrato di tutte le disgrazie del mondo” ma anche “un popolo che sulla terra dei suoi antenati ha scelto di prendere in mano il proprio destino e assumere la sua storia nei suoi aspetti positivi e negativi”.

La storia inedita del Burkina che precorse i tempi

Quale sarebbe ora il volto dell’Africa se l’influenza di Sankara e della sua rivoluzione non fossero state schiacciate nel sangue?

Per quattro anni la rivoluzione burkinabè portò al centro della politica un popolo fatto al 90% di contadini poverissimi, abituati a grattare una terra impoverita e arida, a tentare fin nel più remoto dei villaggi la sfida di uno sviluppo autonomo, egualitario, partecipativo, ecologico ante litteram. Il paese cambiò nome, atteggiamenti e strutture materiali, per “osare inventare l’avvenire” fin nel più remoto dei villaggi ma con l’ambizione di proporre al mondo un modello di sviluppo solidale e sostenibile. Di questa rivoluzione della dignità Sankara rimane l’eroe sincero e onesto. Ma quattro anni di governo sono troppo pochi per rivoltare la storia: e alla morte violenta del presidente i contadini, che si trovavano ancora in mezzo a un guado, non ancora davvero alfabetizzati alla politica, semplicemente tornarono alle loro zolle e il potere fu ripreso dalle elite cittadine; quelle che il ribelle aveva combattuto per schierarsi a parola e nei fatti, con tenerezza e fiducia, dalla parte del mondo rurale, delle donne, degli oppressi del mondo; perfino degli alberi.

In quei quattro anni il Burkina Faso scrisse una storia inedita che sembrò anticipare di venti anni progetti come quelli che si sono oggi consolidati in America Latina: l’Alba in primo luogo. Certamente il paese saheliano avrebbe aderito con entusiasmo a un’alleanza africana-latinoamericana. Thomas Sankara fu una figura centrale del panafricanismo e del terzomondismo. Appoggiò i pochi governi progressisti latinoamericani di allora: Cuba, Nicaragua, Grenada. All’Avana nel 1984 ottenne la più alta onorificenza del paese e in quell’occasione disse: “Il Terzo mondo ha la coscienza di appartenere a un insieme tricontinentale, di essere unito nella lotta contro gli stessi trafficanti politici e sfruttatori economici”.

Anche il paradigma sociale e culturale della rivoluzione sankarista sembra risuonare oggi. Cos’è infatti il buen vivir (o vivir bien) ora rivendicato da diversi paesi latinoamericani come elemento fondante della cultura e delle scelte politiche, se non la ricerca di un armonico benessere per tutti, nell’armonia con la Natura, da raggiungere con strumenti quali democrazia diretta, economia popolare, risorse endogene per soddisfare i veri bisogni, valorizzazione del meglio delle tradizioni lasciando cadere le scorie, liberazione della donna, indipendenza culturale, contare sulle proprie forze, dignità della tradizione depurata di quanto di feudale essa possa avere, lotta ai privilegi delle elite, alla corruzione e agli sprechi.

Molti anni prima che si parlasse di sostituire il prodotto interno lordo con criteri a misura del vero benessere, Thomas Sankara pronunciava a Bobo Dioulasso queste parole, tredici giorni prima di morire: “La nostra rivoluzione avrà valore solo se, guardando intorno a noi, potremo dire che i Burkinabé sono un po’ più felici grazie ad essa. Perché hanno acqua potabile e cibo abbondante e sufficiente, sono in salute, perché hanno scuole e case decenti, perché sono meglio vestiti, perché hanno diritto al tempo libero; perché hanno l’occasione di godere di più libertà, più democrazia, più dignità. La rivoluzione è la felicità. Senza felicità, non possiamo parlare di successo” (su Thomas Sankara. Il presidente ribelle, manifestolibri).

Sankara, il presidente senza privilegi

La stessa figura di Thomas Sankara ha molto da insegnare ai politici di ogni latitudine, per la personale messa in pratica del principio dell’onestà e del non privilegio: “Non possiamo essere i dirigenti ricchi di un paese povero”; e così furono azzerati i vantaggi materiali che derivavano ai leader dalla politica: “Senza una trasformazione qualitativa di chi è chiamato ad essere artefice della rivoluzione è praticamente impossibile creare una società nuova priva di corruzione, furto, menzogna, e individualismo. Dobbiamo sforzarci di far coincidere i nostri atti con le nostre parole”.

Stipendi modesti, niente spese di rappresentanza, niente aerei personali, vendute le auto blu, aboliti i pranzi e gli eventi di lusso. Del resto il governo doveva essere il primo a mettere in pratica le prescrizioni di austerità autogestita con la quale il “paese degli integri” durante i quattro anni di rivoluzione orgogliosamente rispose ai tentativi di ingerenza del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, sempre respinti perché “vanno oltre il controllo di bilancio e perseguono un controllo politico”.

Contrarissimo al culto della personalità, e ispirandosi dagli ideali di eguaglianza religiosi e marxisti ma anche a quel Gandhi che sognava una “India dalla semplice vita e dal grande pensiero”, Sankara fu un personaggio scomodo non solo in Burkina ma in tutta l’Africa dove gli altri politici di stato si circondavano di agi e armi.

L’integrazione regionale, il debito, le armi…

Già: la lotta contro gli armamenti. E il debito estero. E il debito coloniale. Altrettante anticipazioni di temi ora attualissimi. Nel suo epocale discorso di fronte ai capi di stato africani, alla Conferenza dell’allora Organizzazione per l’unità africana (Oua) ad Addis Abeba, 29 luglio 1987, Sankara tornava sul problema del debito e, ripetendo l’invito fatto al Movimento dei paesi non allineati a New Delhi nel 1984, proponeva ai suoi colleghi africani di non pagare più il debito estero, ma anche di non armarsi più e di tornare all’orgoglio di un’Africa comune, integrata, autonoma: “Non possiamo rimborsare il debito perché non abbiamo di che pagare. Non possiamo rimborsare il debito perché non ne siamo responsabili. Non possiamo pagare il debito perché sono gli altri che hanno nei nostri confronti un debito che le più grandi ricchezze non potrebbero mai pagare, cioè il debito di sangue. È il nostro sangue che è stato versato. Abbiamo il dovere di creare il Fronte unito di Addis Abeba contro il debito”. Ma al tempo stesso occorreva un impegno a farla finita con la corruzione, i privilegi e le spese di morte: “In particolare eviteremo di indebitarci per poi acquistare armi (…) nel lanciare la risoluzione di non pagare il debito, dobbiamo contestualmente trovare una soluzione al problema degli armamenti. (…).

Le risorse liberate dovevano servire alla fuoriuscita dalla miseria e all’integrazione regionale, una sorta di Alba africana: “Abbiamo abbastanza risorse nel suolo e nel sottosuolo, abbastanza braccia, abbiamo un mercato immenso da nord a sud e da est ad ovest; abbiamo capacità intellettuali (…). Facciamo sì che il mercato africano sia davvero il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa e consumare in Africa. Produciamo ciò di cui abbiamo bisogno, e consumiamo quel che produciamo invece di importarlo (…). Dobbiamo accettare di vivere all’africana perché è per noi il solo modo di vivere liberamente e di vivere degnamente”.

Perfino in tema di cooperazione internazionale (che il Nord dovrebbe piuttosto chiamare “restituzione del maltolto”, ndr), Sankara precorreva i tempi: era per una collaborazione Sud-Sud così da fare a meno il prima possibile anche dei privilegiati assistenti tecnici dei paesi ricchi, “con il costo di ognuno dei quali noi potremmo costruire una scuola all’anno”. Uno squilibrio che dura tuttora. E che il progetto Alba avviato dai paesi latinoamericani affronta con decisione.

La sovranità alimentare. Nel Sahel

Il compito che nel 1983 la rivoluzione guidata da Sankara si era data era immenso: l’Alto Volta era tra i paesi più poveri del mondo, con un tasso di mortalità infantile stimato a 180 per 1.000 nati, un’aspettativa di vita media di soli 40 anni, un tasso d’analfabetismo vicino al 98% e infine un prodotto interno lordo pro capite di 53.356 franchi Cfa (cioè poco più di 72 euro). Con una mobilitazione collettiva che in parte cercò anche di superare la divisione fra lavoro manuale e lavoro non manuale, lo sforzo fu condotto su tutti i fronti dello sviluppo autocentrato e partecipativo, con campagne e mezzi originali, dalle “operazioni commando di alfabetizzazione” alla “radio entrate e parlate”, dai lavori comunitari anche per i funzionari ai progetti “un villaggio un bosco, un villaggio un ambulatorio, un villaggio una scuola”, dalle “tre lotte contro il deserto” al faso dan fani (il tessuto tradizionale del paese, cotone locale lavorato localmente; nel malumore dei funzionari Sankara l’aveva quasi imposto, almeno per le cerimonie, a sostituire la cravatta occidentale).

Contare sulle proprie forze è fra i motivi guida della rivoluzione. Non è la ricerca dell’autarchia ma un imperativo di efficacia e giustizia sociale. Sviluppare le produzioni locali e la loro trasformazione in loco, produrre il più possibile ciò di cui si ha bisogno e consumare burkinabé. La sicurezza alimentare coniugata con la sovranità. La sfida “produciamo quello che consumiamo, consumiamo quello che produciamo” intrecciava la necessità di liberare i burkinabè rurali dal nemico fame e dal nemico sete, con l’obiettivo di indipendenza nel modello alimentare (i manghi e il miglio, a anziché le mele e gli spaghetti neocoloniali e poi…”l’inimmaginabile quantità di derrate cerealicole africane andate a nutrire il bestiame allevato dai ricchi!”) e in quello agricolo: che si caratterizzò per inedite sperimentazioni di agroecologia a sommare un nuovo sforzo nell’approvvigionamento idrico e nelle tecniche produttive con sagge tradizioni colturali antideserto.

Ma in agricoltura come nella cultura, Sankara era lungi dall’esaltare acriticamente le tradizioni. Fu forse il presidente (uomo) più femminista della storia, e un suo discorso per l’8 marzo (sul testo Thomas Sankara. Le idee e i discorsi, ed. Sankara) rimane una pietra miliare: “Se perdiamo la lotta per la liberazione della donna, avremo perso il diritto di sperare in una trasformazione positiva superiore della nostra società. (…) Una società come la nostra deve lottare contro l’escissione e ridurre anche i lunghi tragitti che la donna percorre per andare a cercare l’acqua, la legna. Abbiamo molti progetti in questo campo. Non possiamo parlare di liberazione della donna senza parlare del mulino per macinare il grano, dell’orto, del potere economico. (…)

Perfino in tema di cooperazione internazionale (che il Nord dovrebbe piuttosto chiamare “restituzione del maltolto”, ndr), Sankara precorreva i tempi: lavorando per una collaborazione Sud-Sud così da fare a meno il prima possibile anche dei privilegiati assistenti tecnici dei paesi ricchi, “con il costo di ognuno dei quali noi potremmo costruire una scuola all’anno”.

Troppo scomodo tutto questo, non solo per diversi governi africani e occidentali, ma perfino, all’interno del Burkina, per una cosiddetta sinistra dogmatica (v. Bruno Jaffré, Les années Sankara, éd. L’Harmattan, Parigi 1988). Gruppi che non accettavano di sacrificare privilegi e potere a una visione della politica che metteva altro al centro, appunto, il semplice benessere di tutti.

* Autrice (con Claudia Fanti) de: L’alba dell’avvenire. Socialismo del XXI secolo e modelli di civiltà dal Venezuela e dall’America Latina (Punto rosso, Milano 2007); Thomas Sankara. I discorsi e le idee (Sankara edizioni, Roma 2003/2007); Il presidente ribelle (manifestolibri, Roma 1997).

** Coordinatrice del “Comitato Sankara XX”.

Fonte : Articolo pubblicato su “ALBA inFormazione” albaredazione@gmail.com;

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